LA CORTE DEI CONTI 
     Sezione giurisdizionale d'appello per la regione siciliana 
 
    Composta dai magistrati: 
      dott. Giovanni Coppola - Presidente; 
      dott. Vincenzo Lo Presti - consigliere; 
      dott. Tommaso Brancato - consigliere; 
      dott. Valter Del Rosario - consigliere-relatore; 
      dott. Guido Petrigni - consigliere; 
    Ha  emesso  la  seguente  ordinanza  m.  42/A/2018  nel  giudizio
d'appello inmateria pensionistica iscritto al n. 5805/AC del registro
si segreteria, promosso da: 
      Di Maggio Piero, nato a Tusa (ME)  il  13  marzo  1944,  difeso
dall'avv. Francesco Castaldi (con  domicilio  eletto  presso  il  suo
studio legale, in via Littore Ragusa n. 22 Palermo); 
      Avverso  il  Fondo  Pensioni  Sicilia,  difeso  dagli  avvocati
Vincenzo Farina e  Beniamino  Lipani  (domiciliati  presso  l'Ufficio
Legislativo e Legale della Regione Siciliana, in via Caltanissetta n.
2/E, Palermo), per ottenere la riforma della  sentenza  n.  829/2016,
emessa dalla Sezione Giurisdizionale della Corte  dei  conti  per  la
Regione Siciliana in data 18 novembre 2016; 
    Visti tutti gli atti e documenti di causa; 
    Uditi  nella   pubblica   udienza   del   14   giugno   2018   il
consigliere-relatore  dott.  Valter  Del  Rosario,  l'avv.  Francesco
Castaldi per il sig. Di Maggio e l'avv. Beniamino Lipani per il Fondo
Pensioni Sicilia. 
 
                                Fatto 
 
    Nel ricorso inoltrato alla Sezione di  primo  grado  nell'ottobre
2014, Di Maggio Piero  (ex  dirigente  della  Regione  Siciliana,  in
quiescenza dal 26  maggio  2010,  titolare  di  pensione  d'ammontare
superiore ad € 160.000,00 annui lordi) riferiva che,  a  partire  dal
mese  di  luglio  2014,  la  sua  pensione  era  stata  decurtata  in
applicazione dell'art. 13, comma 2, della legge regionale  11  giugno
2014, n. 13, secondo cui: «Al fine di conseguire  risparmi  di  spesa
attraverso  la  razionalizzazione  della  spesa  pubblica   regionale
nonche' al fine della salvaguardia degli equilibri di  bilancio,  per
il  periodo  1°  luglio  2014  -  31  dicembre  2016  i   trattamenti
onnicomprensivi di pensione, compresi quelli in godimento,  in  tutto
od in parte a  carico  dell'Amministrazione  regionale  e  del  Fondo
Pensioni Sicilia, non possono  superare  il  tetto  di  €  160.000,00
annui». 
    Considerato che, a suo avviso, tale norma presentava vari profili
d'incostituzionalita', il Di Maggio  chiedeva  al  Giudice  di  primo
grado di deferire le relative questioni alla Corte costituzionale, al
fine d'ottenere, previa declaratoria d'illegittimita'  costituzionale
della disposizione contestata, la condanna del Fondo Pensioni Sicilia
a  ripristinare  l'erogazione  della  sua  pensione   nell'originario
ammontare ed a  corrispondere  le  relative  somme  arretrate  a  lui
spettanti, maggiorate degli accessori di legge. 
    Con la sentenza n. 829/2016 il Giudice di  primo  grado  reputava
manifestamente  infondate  tutte   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale prospettate dal Di Maggio nei riguardi dell'art. 13, i
comma  2,  della  legge  regionale  11  giugno  2014,   n.   13,   e,
conseguentemente, rigettava il ricorso giurisdizionale  proposto  dal
medesimo. 
    Avverso  tale  sentenza  ha  proposto  appello  il   Di   Maggio,
affermando  che  il  Giudice  di  primo  grado  avrebbe  erroneamente
ritenuto  che  fossero  manifestamente  infondate  le  questioni   di
legittimita' costituzionale,  che  erano  state  da  lui  prospettate
avverso la norma che aveva fissato, per il periodo 1° luglio  2014  -
31 dicembre 2016, ad €  160.000,00  annui  il  tetto  delle  pensioni
dovute agli ex dipendenti della Regione Siciliana. 
    In particolare, la parte appellante ha, preliminarmente, riferito
d'aver ricoperto il ruolo di dirigente di prima fascia della  Regione
Siciliana e d'essere stato assunto in  servizio  in  epoca  anteriore
all'entrata in i vigore della legge regionale  n.  21  del  9  maggio
1986, venendo cosi' a far parte della  schiera  degli  ex  dipendenti
regionali rientranti nell'ambito del cosiddetto «contratto 1», le cui
pensioni vengono materialmente pagate dal Fondo Pensioni Sicilia, con
l'utilizzo di fondi  integralmente  provenienti  dal  bilancio  della
Regione Siciliana. 
    Cio' in conformita' all'art. 15 della legge regionale  14  maggio
2009, n. 6 (istitutiva del «Fondo  Pensioni  Sicilia»),  che  dispone
espressamente,  al  comma  8,  che:  «L'onere  del   trattamento   di
quiescenza per personale di cui ai i commi 2 e 3 dell'art.  10  della
legge regionale n. 21/1986 (ossia i soggetti  rientranti  nell'ambito
del cosiddetto «contratto 1») e' totalmente  a  carico  del  bilancio
della Regione, che provvede ai relativi pagamenti  tramite  il  Fondo
Pensioni, attraverso appositi trasferimenti delle risorse finanziarie
occorrenti». 
    Cio' premesso, la parte appellante ha sostenuto quanto segue. 
    Come si evince dal testo  dell'art.  13,  comma  2,  della  legge
regionale n. 13/2014 e com'e' stato, peraltro, confermato  dal  Fondo
Pensioni Sicilia (v. la nota n. 7835 del 2 marzo 2016, in risposta  a
specifici quesiti  formulati  dalla  locale  Sezione  Giurisdizionale
della Corte dei conti con apposita ordinanza istruttoria), i risparmi
di spesa, scaturenti dall'imposizione del tetto di € 160.000,00 annui
alle pensioni degli ex dipendenti regionali rientranti nel cosiddetto
«contratto  1»,  non  restano  affatto   nell'ambito   del   circuito
previdenziale per il perseguimento di  finalita'  solidaristiche  e/o
perequative,  ma  vengono  a  configurarsi  come  mere  «economie  di
bilancio» a vantaggio della Regione Siciliana, come tali  finalizzate
alla  razionalizzazione  della  spesa  pubblica  regionale  ed   alla
salvaguardia dei relativi equilibri di bilancio e rientranti, dunque,
nel piu' ampio contesto della «fiscalita' generale». 
    In pratica, l'art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014,
determinando  una  decurtazione  definitiva   della   pensione,   con
acquisizione al bilancio regionale del relativo  ammontare,  presenta
tutti  i  requisiti  individuati  dalla  giurisprudenza  della  Corte
costituzionale  (v.,  ex  plurimis,  le  sentenze:  n.  223/2012,  n.
141/2009, nn. 64, 102, 335 del 2008, n. 334/2006,  n.  73/2005)  come
denotanti la natura tributaria del prelievo,  ossia:  la  doverosita'
della prestazione in mancanza di un rapporto  sinallagmatico  tra  le
parti; il collegamento della  prestazione  alla  spesa  pubblica,  in
relazione ad un presupposto economicamente rilevante. 
    D'altronde, tale prelievo viene a  gravare,  senz'alcuna  ragione
giuridicamente apprezzabile, esclusivamente su una ben determinata ed
assai ristretta categoria  di  soggetti,  quali  i  pensionati  della
Regione Siciliana titolari di trattamenti di  quiescenza  di  elevato
ammontare, restando, invece, esclusi tutti gli altri  cittadini,  ivi
compresi gli ex dipendenti dell'Assemblea Regionale Siciliana. 
    Orbene, ad avviso  della  parte  appellante,  in  tale  peculiare
contesto vanno tenute ben  presenti  le  fondamentali  argomentazioni
contenute nelle sentenze della Corte costituzionale n. 116/2013 e  n.
173/2016, secondo cui se il prelievo a carico  delle  pensioni  viene
acquisito «tout court» al bilancio di Stato (o, come avviene nel caso
di specie, della Regione Siciliana)  ed  e',  dunque  destinato  alla
fiscalita' generale esso si  configura  come  un  tributo  di  natura
speciale e, quindi, va ritenuto  costituzionalmente  illegittimo  per
violazione degli articoli 3 e 53 della Costituzione. 
    In sostanza, secondo la Consulta (v. la  sentenza  n.  173/2016),
«il prelievo sulle pensioni, per superare  lo  scrutinio  stretto  di
costituzionalita'  e  palesarsi,  dunque,  come   misura   improntata
effettivamente alla solidarieta' previdenziale (articoli 2 e 38 della
Costituzione), deve operare all'interno del complessivo sistema della
previdenza, come misura di solidarieta' forte, mirata a puntellare il
sistema pensionistico, e di  sostegno  previdenziale  alle  categorie
piu' deboli, in un'ottica di mutualita'  intergenerazionale,  siccome
imposta da una grave  crisi  del  sistema  stesso,  indotta  da  vari
fattori, che debbono essere accuratamente ponderati dal  legislatore,
in   modo   da   conferire   all'intervento   quella   incontestabile
ragionevolezza, a fronte della quale  soltanto  puo'  consentirsi  di
derogare al principio dell'affidamento in ordine al mantenimento  del
trattamento pensionistico gia' maturato». 
    Cio' posto, la parte appellante ha  affermato  che  la  riduzione
della pensione in godimento, per effetto dell'imposizione,  da  parte
dell'art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014, del tetto di
€ 160.000,00 annui, appare in contrasto con gli articoli 3 e 53 della
Costituzione, essendosi sostanzialmente in presenza dell'introduzione
di «un'imposta speciale, sia pure transitoria, gravante  soltanto  su
alcuni trattamenti  pensionistici,  con  conseguente  violazione  del
principio di parita' di prelievo a parita' di  presupposto  d'imposta
economicamente rilevante». 
    Inoltre, la parte appellante ha rammentato che nella sentenza  n.
173/2016 la Corte costituzionale ha chiaramente affermato  anche  che
l'incidenza del prelievo, benche' operato su pensioni elevate,  ossia
d'ammontare   superiore   al   nucleo   essenziale   di   protezione,
rappresentato dalla pensione minima, non dev'essere eccessiva  bensi'
sostenibile e rispettosa del principio di  proporzionalita',  che  e'
esso stesso criterio, in se'  e  per  se',  di  ragionevolezza  della
misura adottata dal legislatore. 
    D'altro canto, come sottolineato dalla Consulta nella sentenza n.
116/2013, «i redditi derivanti da trattamenti pensionistici non hanno
una natura diversa o «minoris generis» rispetto  agli  altri  redditi
presi a riferimento, ai fini dell'osservanza dei  precetti  contenuti
nell'art. 53 della Cost., che non consente trattamenti  deteriori  di
determinate categorie di redditi da lavoro». 
    Sotto diverso profilo,  ad  avviso  della  parte  appellante,  la
riduzione disposta dell'art. 13, comma 2, della  legge  regionale  n.
13/2014 si pone in contrasto con: 
      il principio di proporzionalita' della pensione  rispetto  alla
qualita'  ed  alla  quantita'   del   lavoro   prestato,   livellando
irragionevolmente allo stesso tetto di €  160.000,00  annui  tutti  i
trattamenti ad esso superiori, a  prescindere  dal  loro  differente,
talvolta  in  maniera  notevole,  ammontare   originario,   che   era
giustificato dalla  diversita'  delle  funzioni  svolte  dai  singoli
soggetti    interessati    e    dall'ampiezza    delle    correlative
responsabilita'; 
      i  principi  della  certezza  del  diritto  e   del   legittimo
affidamento sulla sicurezza giuridica. 
    Proseguendo nell'esposizione delle proprie  doglianze,  la  parte
appellante ha evidenziato che, rientrando, in base all'art. 17, lett.
F, dello Statuto d'Autonomia Speciale, la disciplina del  trattamento
di quiescenza  degli  ex  dipendenti  regionali  tra  le  materie  di
«competenza legislativa  concorrente»  tra  lo  Stato  e  la  Regione
Siciliana, il legislatore regionale non potrebbe travalicare i limiti
imposti dall'osservanza dei «principi e degli interessi generali  cui
si informa la legislazione statale». 
    Orbene, considerato, da un lato, che il legislatore statale,  con
l'art. 13, del decreto-legge  n.  66/2014,  convertito  in  legge  n.
89/2014, ha fissato ad € 240.000,00 annui  lordi  il  limite  massimo
delle retribuzioni dei dipendenti Stato, prevedendo  l'obbligo  delle
Regioni di adeguare i propri ordinamenti al nuovo limite  retributivo
e disponendo, altresi', che le riduzioni dei trattamenti retributivi,
conseguenti all'applicazione del nuovo tetto, «operano  ai  fini  dei
trattamenti  previdenziali  con  riferimento  alle  sole   anzianita'
contributive maturate a decorrere dal 1° maggio 2014», mentre, da  un
altro lato, lo  stesso  legislatore  statale  non  ha  imposto  alcun
«tetto» alle pensioni gia'  in  godimento,  la  parte  appellante  ha
affermato che il legislatore regionale  avrebbe  violato  i  principi
generali fissati dalla legislazione  statale,  avendo,  da  un  lato,
ingiustificatamente abbassato il tetto retributivo dei dipendenti  in
servizio ad € 160.000,00 annui ed avendo, da un  altro  lato,  esteso
«tout court» lo stesso limite alle pensioni, ivi comprese quelle gia'
in godimento. 
    D'altro canto,  l'art.  14,  lett.  Q,  dello  Statuto  siciliano
dispone che lo status giuridico ed economico degli  impiegati  e  dei
funzionari della Regione non puo' essere, in ogni caso,  inferiore  a
quello  del  corrispondente  personale   statale   (come,   peraltro,
sottolineato anche  dalla  Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.
105/1981), circostanza che, invece, e' venuta a verificarsi nel  caso
di specie per effetto di quanto stabilito dall'art.  13  della  legge
regionale n. 13/2014. 
    Sulla  scorta  di  tali  elementi,  la   parte   appellante   ha,
conclusivamente, chiesto che: 
      la sua pensione venga ripristinata nell'originario ammontare  e
venga,  altresi',  riconosciuto  il  suo  diritto  ad   ottenere   la
restituzione delle somme che sono state, nel frattempo, prelevate  su
di essa in applicazione dell'art. 13, comma 2, della legge  regionale
n. 13/2014; 
      come mezzo al fine, venga sollevata questione  di  legittimita'
costituzionale di tale normativa per violazione degli articoli 3, 53,
36 e 38 della Cost. nonche' degli articoli 17, lett. F, e  14,  lett.
Q, dello Statuto d'Autonomia Speciale della Regione Siciliana. 
    Nel costituirsi in giudizio, il Fondo Pensioni Sicilia ha chiesto
il rigetto dell'appello proposto dal  Di  Maggio,  apparendo,  a  suo
avviso,  condivisibili  le  argomentazioni  che  avevano  indotto  il
Giudice  di  primo  grado  a  reputare  manifestamente  infondate  le
questioni di costituzionalita' prospettate dalla parte  attrice,  con
particolare  riferimento  a  quelle  inerenti  la   presunta   natura
tributaria del prelievo disposto sulle pensioni d'ammontare superiore
ad € 160.000,00 annui dall'art. 13, comma 2, della legge regionale n.
13/2014. 
    All'odierna  udienza,  la  parte  appellante  ha  insistito   per
l'accoglimento delle proprie istanze, sottolineando, altresi', che la
vigenza dell'art. 13, comma 2, della legge regionale  n.  13/2014  e'
stata, nel frattempo, prorogata sino al 31 dicembre 2019 dall'art. 1,
comma 3, della  legge  regionale  n.  28/2016,  venendo,  quindi,  ad
assumere  un'efficacia  temporale  notevolmente  estesa  e,   dunque,
palesemente esorbitante rispetto al  prospettato  soddisfacimento  di
esigenze finanziarie straordinarie e contingenti dell'Amministrazione
regionale. 
    Il legale del Fondo Pensioni Sicilia  s'e',  invece,  limitato  a
confermare le conclusioni gia' formulate per iscritto. 
 
                               Diritto 
 
    Come ampiamente riferito nella «parte in fatto», la  controversia
oggetto  del  presente  giudizio  concerne  la  legittimita'  o  meno
dell'applicazione sulla pensione della  parte  appellante  di  quanto
disposto dall'art. 13, comma 2, della  legge  regionale  n.  13/2014,
secondo cui: «Al fine di conseguire risparmi di spesa  attraverso  la
razionalizzazione della spesa  pubblica  regionale  nonche'  al  fine
della salvaguardia degli equilibri di bilancio, per periodo 1° luglio
2014 - 31 dicembre 2016 i trattamenti  onnicomprensivi  di  pensione,
compresi  quelli  in  godimento,  in  tutto  od  in  parte  a  carico
dell'Amministrazione regionale e  del  Fondo  Pensioni  Sicilia,  non
possono superare il tetto di € 160.000,00 annui». 
    A tal proposito deve rammentarsi che con l'art. 1, comma 3, della
legge regionale n. 28/2016 la vigenza  del  «tetto  di  €  160.000,00
annui» per  le  pensioni  degli  ex  dipendenti  regionali  e'  stata
prorogata per un ulteriore triennio, ossia fino al 31 dicembre 2019. 
    Orbene, secondo la parte appellante, tale normativa presenta vari
profili d'incostituzionalita', che sono  stati  sopra  sinteticamente
illustrati. 
    Ad   avviso   del   Collegio   Giudicante,   le   questioni    di
costituzionalita' prospettate risultano  indubbiamente  rilevanti  ai
fini della decisione del presente giudizio, ricorrendo cosi' il primo
dei requisiti previsti dall'art. 23, comma 2, della legge n. 87/1953,
essendo evidente che non e' possibile delibare sulla fondatezza della
domanda della parte attrice (finalizzata ad  ottenere  il  ripristino
della  propria  pensione  nel  suo   originario   ammontare   ed   il
riconoscimento del diritto alla restituzione  delle  somme  che  sono
state e  vengono  tuttora  prelevate  su  di  essa,  in  applicazione
dell'art. 13, comma 2,  della  legge  regionale  n.  13/2014,  i  cui
effetti sono stati prorogati sino al 31 dicembre  2019  dall'art.  1,
comma 3, della  legge  regionale  n.  28/2016)  a  prescindere  dalla
risoluzione   della   problematica   concernente   la    legittimita'
costituzionale della predetta normativa. 
    Cio'  assodato,  al  fine  di  verificare  se  ricorra  anche  il
requisito della  «non  manifesta  infondatezza»  delle  questioni  di
legittimita' costituzionale prospettate nei riguardi della  normativa
in esame, il Collegio Giudicante reputa necessario rammentare  alcuni
fondamentali principi enunziati dalla Corte costituzionale in recenti
sentenze, che si  sono  occupate  di  problematiche  aventi  notevole
attinenza con quella oggetto del presente giudizio. 
    Con  la  sentenza  n.  116/2013   la   Consulta   ha   dichiarato
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  18,  comma  22-bis,  del
decreto-legge n. 98/2011,  convertito  in  legge  n.  111/2011,  come
modificato dall'art. 24, comma 31-bis, del decreto-legge n. 201/2011,
convertito in legge n, 214/2011, il quale aveva disposto che, per  il
periodo dal 1° agosto 2011 al 31 dicembre 2014, le  pensioni  erogate
dagli Enti  gestori  di  forme  di  previdenza  obbligatoria,  aventi
ammontare  superiore  ai   90.000,00   €   annui   lordi,   venissero
assoggettate ad un «contributo di perequazione», pari: 
      al 5%, da applicarsi sullo scaglione da 90.000,00 a  150.000,00
€; 
      al  10%,  da  applicarsi  sullo  scaglione  da   150.000,00   a
200.000,00 €; 
      al 15%, da applicarsi sullo scaglione oltre i 200.000,00 €. 
    A tal proposito, la Consulta (richiamando  talune  argomentazioni
gia' esposte nelle proprie  precedenti  sentenze  n.  223/2012  e  n.
241/2012)  ha  riconosciuto  la  natura   tributaria   del   predetto
«contributo   di   perequazione»,   trattandosi   di   un    prelievo
sostanziamente analogo a quello,  gia'  dichiarato  incostituzionale,
che era stato  disposto  sul  trattamento  economico  dei  dipendenti
pubblici;  esso  veniva  ad  integrare,  infatti,  una   decurtazione
patrimoniale definitiva della pensione, con acquisizione al  bilancio
statale del relativo ammontare,  che  presentava  tutti  i  requisiti
richiesti dalla giurisprudenza costituzionale per potersi qualificare
il prelievo come tributario (v. le sentenze n. 223/2012, n. 141/2009,
nn. 64, 102 e 335 del 2008, n. 334/2006, n. 73/2005). 
    In particolare, secondo la Corte costituzionale: 
      la norma di cui all'art. 18, comma 22-bis, violava gli articoli
3 e 53 della Cost.,  configurandosi  come  un  intervento  impositivo
irragionevole e discriminatorio a danno  di  una  sola  categoria  di
cittadini, i pensionati, senza garantire l'osservanza  del  principio
di eguaglianza a parita' di reddito, e cio' attraverso un'irrazionale
limitazione della platea dei soggetti passivi; 
      i redditi da pensione non hanno, infatti, una natura diversa  o
«minoris   generis»   rispetto   agli   altri   redditi,   ai    fini
dell'osservanza dell'art. 53 della Cost.; 
      l'applicazione  di  un  tributo  non  puo'  prescindere  da  un
indefettibile raccordo con la capacita' contributiva, in un quadro di
sistema informato a criteri di progressivita', come esplicazione  del
principio di eguaglianza; 
      appariva pertanto, irragionevole  il  diverso  trattamento  tra
pensionati e contribuenti in generale; 
      d'altro canto, se l'eccezionalita' della  situazione  economica
dello Stato e' suscettibile di  consentire  il  ricorso  a  strumenti
eccezionali,  cio'   non   puo'   determinare   l'obliterazione   dei
fondamentali canoni di eguaglianza, su  cui  si  fonda  l'ordinamento
costituzionale; 
      l'irragionevolezza  dell'intervento  settoriale  in   questione
risultava, dunque, palese,  considerato  anche  che  la  pensione  ha
natura di «retribuzione differita», di modo che il  maggior  prelievo
tributario  rispetto  ad  altre   categorie   appariva   ancor   piu'
discriminatorio, in quanto gravante su redditi consolidati  nel  loro
ammontare, di pertinenza di cittadini che avevano ormai terminato  la
loro vita lavorativa. 
    Con la sentenza n.  114/2017  la  Consulta  s'e'  pronunziata  in
ordine alla legittimita' costituzionale: 
      della disciplina dettata in materia di «tetto retributivo»  nel
comparto pubblico (attualmente fissato in € 240.000,00  annui  lordi,
pari alla retribuzione spettante al Primo Presidente della  Corte  di
Cassazione)  dell'art.  23-ter   del   decreto-legge   n.   201/2011,
convertito, con modificazioni, nella legge n. 214/2011,  e  dall'art.
13,  comma  1,  del  decreto-legge  n.   66/2014,   convertito,   con
modificazioni, nella legge n. n. 89/2014;  dell'art.  1,  comma  489,
della legge n. 147/2013, che ha imposto il  limite  di  €  240.000,00
annui anche al cumulo  di  pensioni  e  retribuzioni,  fruite  da  un
medesimo soggetto con oneri gravanti sulle finanze pubbliche. 
      a tal proposito, la Corte costituzionale  ha  evidenziato,  tra
l'altro,  che:  l'imposizione  di  un  limite  massimo,  sia  per  le
retribuzioni del settore pubblico sia per il cumulo di retribuzioni e
pensioni, si inscrive in un contesto di risorse finanziarie limitate,
che debbono essere ripartite in maniera congrua e trasparente; 
      il limite  delle  risorse  disponibili,  immanente  al  settore
pubblico, vincola il legislatore a  scelte  coerenti,  preordinate  a
bilanciare  molteplici  valori  di  rango  costituzionale,  quali  la
parita' di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto ad una retribuzione
proporzionata alla quantita' ed alla qualita' del  lavoro  svolto  e,
comunque, idonea a garantire un'esistenza libera  e  dignitosa  (art.
36, comma 1, Cost.), il diritto ad un'adeguata  tutela  previdenziale
(art. 38, comma 2, Cost.); 
      in tale contesto, anche la disciplina del cumulo di pensioni  e
retribuzioni viene ad interferire  con  molteplici  valori  di  rango
costituzionale, tra cui il diritto ad una  prestazione  previdenziale
proporzionata all'attivita' svolta. 
    Cio' posto, la Consulta ha affermato che nel settore pubblico non
e'  precluso  al  legislatore  fissare   un   limite   massimo   alle
retribuzioni ed al cumulo di retribuzioni e  pensioni,  a  condizione
che la scelta, volta a bilanciare i diversi valori coinvolti, non sia
manifestamente irragionevole. 
    In tale ottica, si richiede il rispetto  di  requisiti  rigorosi,
che salvaguardino l'idoneita' del limite cosi' fissato a garantire un
adeguato   e   proporzionato    contemperamento    degli    interessi
contrapposti; infatti, il fine  prioritario  della  razionalizzazione
della spesa pubblica  deve  tener  conto  delle  risorse  finanziarie
concretamente disponibili, senza, pero', svilire il  lavoro  prestato
da chi esprime professionalita' elevate. 
    La  Consulta  ha,  quindi,  ritenuto   che   l'imposizione   alle
retribuzioni del settore pubblico del tetto massimo di  €  240.000,00
annui non puo' considerarsi costituzionalmente illegittima, in quanto
essa  persegue   finalita'   di   contenimento   e   di   complessiva
razionalizzazione della spesa, in una prospettiva di  garanzia  degli
altri interessi generali coinvolti. 
    D'altronde, la non irragionevolezza delle scelte del  legislatore
viene corroborata dalla valenza generalizzata del limite  retributivo
cosi' fissato, in quanto previsto come  misura  di  razionalizzazione
suscettibile  d'imporsi  indistintamente   a   tutti   gli   apparati
amministrativi. 
    Considerazioni sostanzialmente analoghe sono state espresse dalla
Consulta con riferimento alla legittimita' costituzionale del  limite
di  cumulabilita',  anch'esso  fissato  ad  €  240.000,00  annui,  di
retribuzioni e pensioni. 
    Con  la  sentenza  n.  173/2016  la  Code   Costituzionale,   nel
dichiarare   l'infondatezza   delle   questioni    di    legittimita'
costituzionale sollevate relativamente all'art. 1, comma  486,  della
legge n. 147/2013 (legge di stabilita' per  il  2014),  disciplinante
l'applicazione del «contributo di  solidarieta'»  sulle  pensioni  da
91.216,51 € in su, ha affermato che: 
      il contributo di solidarieta' in questione non  riveste  natura
d'imposta, in quanto non e' acquisito direttamente  dallo  Stato  per
essere destinato alla fiscalita' generale, venendo, invece, prelevato
dall'I.N.P.S. e dagli altri Enti previdenziali  interessati,  che  lo
trattengono all'interno delle proprie gestioni per  il  perseguimento
di finalita'  solidaristiche  endo-previdenziali,  anche  per  quanto
concerne i trattamenti destinati ai lavoratori cosiddetti «esodati»; 
      trattasi, dunque, di un prelievo inquadrabile nel  genus  delle
«prestazioni patrimoniali imposte per  legge»,  di  cui  all'art.  23
della Cost., avente la finalita' di contribuire al contenimento degli
ingenti  oneri  finanziari  del  sistema  previdenziale  ed  al   suo
riequilibrio; 
      d'altronde,  in  linea  di  principio,  l'applicazione  di   un
contributo di solidarieta' sulle pensioni  e'  misura  consentita  al
legislatore,  ove  non  travalichi  i  limiti  della  ragionevolezza,
dell'affidamento e della tutela previdenziale, di cui agli articoli 3
e 38 della Cost.; 
      il    contributo    deve,    dunque,    operare     all'interno
dell'ordinamento previdenziale, come misura  di  solidarieta'  forte,
mirata  a  puntellare  il  sistema  pensionistico,  e   di   sostegno
previdenziale alle categorie piu'  deboli,  siccome  imposta  da  una
grave crisi del sistema stesso, indotta da vari fattori, che  debbono
essere  accuratamente  ponderati  dal  legislatore,   in   modo   che
l'intervento sia ragionevole e  consenta  di  derogare  al  principio
dell'affidamento  in  ordine  alla   conservazione   della   pensione
conseguita; 
      in tale contesto, il contributi di solidarieta' deve  avere  le
caratteristiche dell'eccezionalita' e della temporaneita'; 
      il prelievo deve incidere sulle pensioni elevate, ossia  quelle
d'ammontare   superiore   al   nucleo   essenziale   di   protezione,
rappresentato dalla pensione minima; in  ogni  caso,  non  dev'essere
eccessivo   ma   sostenibile   e   rispettoso   del   principio    di
proporzionalita'. 
    La Corte ha,  conclusivamente,  ribadito  che  il  contributo  di
solidarieta',   onde    superare    lo    «scrutinio    stretto    di
costituzionalita'» e palesarsi come misura improntata  effettivamente
alla solidarieta' previdenziale (in conformita' agli articoli 2 e  38
della Cost.), deve: 
      operare all'interno del complessivo sistema della previdenza; 
      essere imposto dalla crisi contingente e grave di tale sistema; 
      incidere sulle pensioni piu' elevate; 
      presentarsi come prelievo sostenibile; 
      rispettare il principio di proporzionalita'; 
      essere utilizzato come misura una tantum. 
    Secondo la Corte Costituzionale, tali  condizioni  appaiono,  sia
pur al limite, rispettate dal contributo di  solidarieta'  introdotto
dall'art. 1, comma 486, della legge n. 147/2013, dato che: 
        esso  opera  all'interno  del  sistema   previdenziale,   che
concorre a finanziare in  un  momento  di  grave  crisi  del  sistema
stesso, in cui s'e' manifestata  anche  l'esigenza  di  tutelare  gli
«esodati»; 
      riguarda le pensioni piu' elevate, incidendo su di esse in base
ad  aliquote  crescenti,  nel  rispetto,  dunque,  del  criterio   di
proporzionalita' e, tenuto conto della temporaneita', anche di quello
di sostenibilita' del sacrificio economico imposto. 
    Cio'  posto,  vagliando  le  doglianze  prospettate  dalla  parte
appellante nei riguardi dell'art. 13, comma 2, della legge  regionale
n. 13/2014, il Collegio Giudicante reputa  che  il  prelievo  che  e'
stato imposto sulle  pensioni  regionali  d'importo  superiore  ad  €
160.000,00 annui, al fine di ricondurne l'ammontare  massimo  a  tale
cifra, non appare conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza
costituzionale sopra illustrata. 
    In primo luogo, si osserva che il prelievo in questione  presenta
indubbiamente le  caratteristiche  che  la  Corte  costituzionale  ha
individuato come denotanti la tipica natura tributaria,  consistenti:
nella ricorrenza di una prestazione patrimoniale imposta in  mancanza
di un rapporto sinallagmatico intercorrente tra le parti,  avente  un
palese  collegamento  alla  spesa  pubblica  in   relazione   ad   un
presupposto economicamente rilevante (v., ex plurimis, le sentenze n.
223/2012, n. 141/2009, nn. 64, 102 e 335 del 2008,  n.  334/2006,  n.
73/2005). 
    Infatti, appare evidente che l'art.  13,  comma  2,  della  legge
regionale n. 13/2014, la cui vigenza e' stata prorogata  sino  al  31
dicembre 2019 dall'art. 1, comma 3, della legge regionale n. 28/2016,
ha disposto una sorta di «prelievo forzoso», comportante un rilevante
sacrificio  economico  individuale,  su  determinate   pensioni,   da
attuarsi mediante un atto autoritativo di  carattere  ablatorio,  con
dichiarata destinazione del  relativo  gettito  al  conseguimento  di
generici risparmi di spesa  ed  al  soddisfacimento  di,  non  meglio
precisate, esigenze di riequilibrio del bilancio regionale. 
    In particolare, le sole pensioni su cui  viene  concretamente  ad
incidere il prelievo in questione sono quelle  d'ammontare  superiore
ad € 160.000,00 annui, in godimento di una ristretta  cerchia  di  ex
dirigenti  regionali,  pensioni  i  cui  oneri   finanziari   gravano
direttamente ed esclusivamente sul bilancio della Regione  Siciliana,
come si evince dall'art. 15 della legge regionale 14 maggio 2009,  n.
6,   istitutiva   del   «Fondo   Pensioni   Sicilia»,   che   dispone
espressamente,  al  comma  8,  che:  «L'onere  del   trattamento   di
quiescenza per il personale di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 10  della
legge regionale n. 21/1986 (ossia i soggetti  rientranti  nell'ambito
del  cosiddetto  "contratto  1",  in  quanto  assunti   in   servizio
anteriormente al 9 maggio 1986) e' totalmente a carico  del  bilancio
della Regione, che provvede ai relativi pagamenti  tramite  il  Fondo
Pensioni Sicilia, attraverso  appositi  trasferimenti  delle  risorse
finanziarie occorrenti». 
    Va, peraltro, rammentato che lo stesso  Fondo  Pensioni  Sicilia,
con la nota n. 7835 del 2 marzo 2016, ha riferito che: 
      i risparmi di spesa derivanti dall'applicazione  dell'art.  13,
comma  2,  della  legge  regionale  n  13/2014   hanno   un'immediata
ripercussione  sulla  spesa  sostenuta  dalla  Regione   in   materia
previdenziale, in quanto la medesima si trova  ad  effettuare  minori
trasferimenti al Fondo per  materiale  pagamento  delle  pensioni  in
favore degli  ex  dipendenti  regionali  rientranti  nell'ambito  del
cosiddetto "Contratto 1"; 
        tale   norma   e',   quindi,   volta   a   contribuire   alla
razionalizzazione della complessiva spesa pubblica regionale ed  alla
salvaguardia dei relativi equilibri di bilancio. 
    Sulla scorta di tali elementi, appare, quindi, del tutto evidente
che il  gettito  del  prelievo  imposto  sulle  pensioni  d'ammontare
superiore ad € 160.000,00 annui non  resta  affatto  nell'ambito  del
circuito previdenziale,  in  vista  del  perseguimento  di  finalita'
solidaristiche e/o perequative interne a tale  sistema,  cosi'  come,
invece, ritenuto necessario, onde  evitare  l'insorgenza  di  profili
d'incostituzionalita', dalla Consulta nella sentenza n. 173/2016, che
s'e'  occupata  della  tematica  del  «contributo  di  solidarieta'»,
disposto sulle pensioni  dall'art.  1,  comma  486,  della  legge  n.
147/2013. 
    Risulta, infatti,  che  il  gettito  derivante  dall'applicazione
dell'art. 13, comma 2, della legge regionale n. 13/2014 comporta meri
risparmi in favore del bilancio regionale, in vista del perseguimento
di generici obiettivi di riequilibrio finanziario,  senza,  peraltro,
arrecare alcun concreto vantaggio al  sistema  previdenziale  vigente
per gli ex dipendenti regionali. 
    Ravvisata, dunque, la  natura  sostanzialmente  tributaria  della
disposizione recata dall'art. 13, comma 2, della legge  regionale  n.
13/2014, deve ritenersi che, nel formulare tale norma, il legislatore
regionale  non  avrebbe  potuto   prescindere   dall'osservanza   dei
fondamentali principi di ragionevolezza  e  di  eguaglianza,  di  cui
all'art. 3 della Costituzione, nonche'  di  quelli  di  universalita'
dell'imposizione, di  correlazione  del  prelievo  con  la  capacita'
contributiva  e  di  progressivita',  sanciti  dall'art.   53   della
Costituzione, la cui inderogabilita' e' stata, come sopra rammentato,
ribadita dalla Code Costituzionale nella sentenza n. 116/2013 (che ha
dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale  del  prelievo  disposto
sulle pensioni d'ammontare superiore a 90.000,00  €  annui  dall'art.
18, comma 22-bis, del decreto-legge n. 98/2011, convertito  in  legge
n.  111/2011,  come  modificato  dall'art.  24,  comma  31-bis,   del
decreto-legge n. 201/2011, convertito in legge n. 214/2011). 
    D'altronde,  come  affermato  dalla  Corte  costituzionale  nella
sentenza n. 124/2017 (la quale s'e'  pronunziata  sulle  disposizioni
riguardanti l'ammontare del tetto massimo, fissato  in  €  240.000,00
annui, sia per le retribuzioni del settore pubblico sia per il cumulo
di retribuzioni e  pensioni),  il  legislatore,  nel  perseguire  gli
obiettivi del contenimento  e  della  razionalizzazione  della  spesa
pubblica, imposti dalle limitate risorse finanziarie  disponibili  in
un contesto di grave e persistente crisi economica, rimane, comunque,
sempre obbligato  ad  effettuare  scelte  coerenti  e  preordinate  a
bilanciare,   con   l'osservanza   dell'inderogabile   principio   di
ragionevolezza, molteplici valori di rango costituzionale, tra cui la
parita' di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto ad una retribuzione
(nonche' ad una  pensione,  intesa  quale  «retribuzione  differita»)
proporzionata alla quantita' ed alla qualita' del lavoro prestato  e,
comunque, idonea a garantire un'esistenza libera e dignitosa (ad. 36,
comma 1, Cost.), il diritto ad un'adeguata tutela previdenziale (art.
38, comma 2, Cost.). 
    Orbene, nella fattispecie in esame risulta che,  nell'imporre  il
tetto massimo di € 160.000,00 annui  alle  pensioni,  il  legislatore
regionale non s'e' curato d'effettuare alcun ponderato  bilanciamento
dei molteplici valori di rango costituzionale in gioco. 
    Tale «speciale intervento impositivo», di natura  sostanzialmente
tributaria,  appare,  dunque,  irragionevole  e  discriminatorio,  in
quanto e  venuto  a  gravare  esclusivamente  su  una  ristrettissima
cerchia di pensionati regionali,  senza  garantire  l'osservanza  dei
principi generali di eguaglianza a parita' di reddito e di  capacita'
contributiva, di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione. 
    D'altro canto, il prelievo operato in applicazione dell'art.  13,
comma 2, della legge regionale n. 13/2014, pur incidendo su  pensioni
di  elevato  ammontare,  non   rispetta   affatto   i   principi   di
proporzionalita' e d'adeguatezza, di cui al combinato disposto  degli
articoli 36, comma 1, e 38, comma 2, della Cost., del trattamento  di
quiescenza (costituente, com'e'  noto,  una  forma  di  «retribuzione
differita») alla qualita'  ed  alla  quantita'  del  lavoro  prestato
(principi la  cui  osservanza  dev'essere  garantita  anche  dopo  il
collocamento a riposo  del  lavoratore  interessato);  infatti,  tale
prelievo ha l'effetto  di  livellare  irragionevolmente  allo  stesso
tetto di € 160.000,00 annui (peraltro,  individuato  dal  legislatore
regionale senza riferimento ad  alcun  congruo  parametro  oggettivo,
come, invece, ritenuto necessario dalla Corte costituzionale  con  la
sentenza  n.  124/2017)  tutti  indistintamente  i   trattamenti   di
quiescenza ad esso  superiori,  a  prescindere  dai  loro  differenti
importi  originari,  che  erano  giustificati  essenzialmente   dalla
diversita' delle funzioni svolte dai singoli soggetti  interessati  e
dall'ampiezza delle correlative peculiari  responsabilita'  ricoperte
in seno all'Amministrazione, nonche' a prescindere  dalle  diversita'
in termini di anzianita' vantate e di importi versati da ciascuno per
contributi previdenziali. 
    In tal modo, il prelievo  in  esame  e'  venuto  indubbiamente  a
frustrare, in assenza di specifiche ed  eccezionali  esigenze,  anche
l'affidamento  sulla   sicurezza   giuridica,   che   il   pensionato
interessato aveva legittimamente maturato in ordine  alla  stabilita'
del  proprio  trattamento  di   quiescenza,   in   quanto   liquidato
dall'Amministrazione in conformita' alla normativa vigente  all'epoca
della sua cessazione dal servizio. 
    Il medesimo prelievo non presenta, peraltro, neppure il requisito
della «agevole sostenibilita'», che e' stato ritenuto  indispensabile
dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 173/2016, in quanto esso
comporta una rilevante e talvolta ingente decurtazione dell'ammontare
dell'originario trattamento pensionistico in godimento. 
    D'altronde, essendo stato prorogato, mediante l'art. 1, comma  3,
della legge regionale  n.  28/2016,  per  un  ulteriore  triennio  e,
dunque,  avendo  assunto   (salve   eventuali   ulteriori   proroghe)
un'estensione temporale di ben cinque anni e  sei  mesi  (dal  luglio
2014  al  dicembre  2019),  tale   prelievo   non   risulta   affatto
configurabile,  come,  invece,  reputato   necessario   dalla   Corte
costituzionale  nella  sentenza  n.   173/2016,   come   una   misura
eccezionale, adottata «una  tantum»  per  sopperire  a  specifiche  e
comprovate esigenze straordinarie e contingenti,  apparendo,  invece,
come uno strumento  ormai  ordinariamente  utilizzato  dalla  Regione
Siciliana per reperire risorse finanziarie, con oneri posti a  carico
esclusivamente di  una  ristretta  cerchia  di  pensionati  e  senza,
peraltro,  produrre  alcun  concreto  vantaggio  per  il  complessivo
sistema previdenziale regionale. 
    D'altro canto, considerato che una  normativa  analoga  a  quella
introdotta dal legislatore regionale siciliano  (ossia  l'imposizione
di un tetto massimo di € 160.000,00 sui  trattamenti  di  quiescenza)
non trova attualmente  alcun  riscontro  nei  confronti  degli  altri
pensionati italiani, sia del settore pubblico che di quello  privato,
appare evidente l'irrazionale effetto discriminatorio che s'e' venuto
a produrre a carico  dei  pensionati  della  Regione  Siciliana,  con
conseguente insorgenza di un  ulteriore  profilo  di  violazione  del
principio di eguaglianza, sancito dall'art. 3 della Costituzione. 
    Il Collegio Giudicante reputa, conclusivamente, che  le  predette
questioni riguardanti la legittimita'  costituzionale  dell'art.  13,
comma 2, della legge Regionale Siciliana n. 13 dell'11 giugno 2014  e
dell'art. 1, comma 3, della legge Regionale Siciliana n.  28  del  29
dicembre 2016 siano non soltanto rilevanti  per  la  decisione  della
presente causa ma anche non manifestamente infondate, ragion per  cui
esse, previa sospensione  del  giudizio  pendente  dinanzi  a  questa
Sezione d'Appello della Corte dei Conti per la Sicilia, vanno rimesse
alla Corte Costituzionale ai sensi dell'art. 134 della  Costituzione,
dell'art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948 e  dell'art.  23
della legge n. 87 del 1953.